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Recensione a Bibliotecario, il mestiere più bello del mondo, di Maria Stella Rasetti

rasetti-1In un bel volumetto pubblicato nella collana “Conoscere la biblioteca” dell’editrice Bibliografica, Maria Stella Rasetti, direttrice dalla biblioteca San Giorgio di Pistoia, spiega com’è il lavoro di bibliotecario e mostra come questo lavoro può essere per chi lo fa “il mestiere più bello del mondo”.

L’autrice esordisce dicendo che il suo libro (Bibliotecario, il mestiere più bello del mondo, Milano : Editrice bibliografica, 2014) “si rivolge a tutti coloro che non si sono mai chiesti in che cosa consista esattamente il lavoro del bibliotecario”, per esempio a sindaci e assessori oppure a chi, pensando al bibliotecario, “lo identifica sbrigativamente con l’addetto al riordino dei libri sugli scaffali” o lo trasforma “nel potenziale lettore di tutti i libri presenti in biblioteca” (pp.7-8). Aggiungerei che può essere una valida lettura per chi vorrebbe lavorare in una biblioteca o ha appena cominciato a farlo (ma anche chi ha già più esperienza può apprezzarlo).

Rasetti sottolinea opportunamente che quella del bibliotecario è una professione con una sua specificità, per cui non basta essere semplicemente “bravi impiegati generici” (p.35). “Ci sentiremmo tranquilli” chiede nel libro “se dovessimo salire su un aereo, sapendo che il pilota non è un vero professionista, con tante ore di volo alle spalle, ma solo un grande appassionato di aeromodellismo? Affideremmo la nostra colecisti dolorante a chi medico non è, ma non si perde una puntata di Dr. House? Affideremmo la nostra difesa in tribunale ad un appassionato di Grisham?” (p.37) La voglia di fare e la disponibilità verso il pubblico sono fondamentali, ma non sono sufficienti. Il bibliotecario ha (o dovrebbe avere) precise competenze tecniche.

L’autrice lamenta il fatto che poco si è fatto per definire la professionalità del bibliotecario e cita (p.39) come un’eccezione virtuosa il “caso illustre” dei profili professionali e di competenza definiti dalla regione Lombardia nel 2004 sui quali però, personalmente, ho forti perplessità proprio perché non puntano sulla specificità del lavoro del bibliotecario. Il profilo di base del bibliotecario è fin prolisso, ma non sono molte le righe che si riferiscono a ciò che caratterizza in modo specifico la professione di bibliotecario – e in tali righe manca pure la catalogazione (e, se si vede quanto detto a proposito nella premessa, si deve pensare che non sia semplice dimenticanza o che la si consideri compresa in termini più ampi, ma che sia proprio una voluta omissione). Non ho nulla contro la statistica o la sociologia, ma resto ovviamente perplesso di fronte all’idea che per il bibliotecario siano necessari “elementi di statistica applicata, di sociologia, di teoria della comunicazione di massa”, ma non è importante che sappia catalogare un libro. Serve davvero soffermarsi sulle conoscenze “di diritto pubblico, di diritto amministrativo, di contabilità generale”? Quel poco di ciò che realmente serve a un bibliotecario che non ha responsabilità di area (cioè quasi tutti) lo si può spiegare in breve tempo al nuovo assunto. Sorvolo su espressioni fumose come “controllo e valutazione della qualità”. Se si vuole definire cos’è un bibliotecario, meglio farlo riferendosi al trattamento di libri e altri documenti, compresa la loro catalogazione, e in generale dell’informazione. Insomma, se su questo punto sono in disaccordo con Rasetti è proprio perché ritengo che abbia ragione quando sostiene la specificità della professione di bibliotecario.

L’autrice richiama giustamente l’attenzione sui bibliotecari precari, che lavorano tramite società o cooperative di servizi (pp.43-52). Che possano essere bravi quanto chi ha avuto il posto fisso superando un concorso, è senza dubbio vero: potrei fare esempi di colleghi che conosco (che, poi, un concorso potrebbero ben vincerlo, se lo trovassero). Come nota Rasetti, alcuni lavorano da anni in situazione di precariato.

Nel libro si parla anche del ruolo dei volontari nelle biblioteche. L’autrice riconosce che i volontari possono avere un ruolo prezioso in attività come gruppi di lettura ad alta voce per persone anziane o di scrittura creativa, ma dà il suo “no all’uso dei volontari per lo svolgimento di attività di pertinenza del personale addetto (dalla registrazione dei prestiti al riordino dei libri sugli scaffali, dalla catalogazione delle nuove acquisizioni all’aggiornamento delle pagine del sito web, tanto per fare alcuni esempi minimi)” (p.55). Sulla registrazione dei prestiti non sarei così tassativo. Pensiamo a una biblioteca dove c’è un solo bibliotecario (che è il caso prevalente, almeno qui dalle mie parti) con un volontario che quel giorno è a disposizione. Se il bibliotecario sta raccontando una storia ai bimbi della scuola dell’infanzia e una persona deve semplicemente registrare un prestito, manderei a farlo il volontario, se conosce le procedure, e lascerei il bibliotecario con i bimbi. Metterei un “ni” sul riordino dei libri: tutto sommato, almeno per la narrativa (penso a una biblioteca con collocazione secondo la Cdd), un volontario può certamente imparare a farlo in maniera corretta. E’ vero però che il mettere i libri sugli scaffali è operazione più delicata di quanto pare creda qualche utente che, tolto dallo scaffale un libro, ma avendo deciso che non fa per lui, lo rimette a caso in un posto qualunque su uno scaffale a caso (gli avvisi che invitano a non farlo purtroppo non sono mai abbastanza efficaci) con il risultato che il libro diventa irreperibile finché il bibliotecario non ci finisce davanti e lo nota, riportandolo quindi al posto giusto. Sulla catalogazione non c’è dubbio che l’autrice ha ragione, ma il vero problema ora non è che qualcuno pensi di far catalogare i libri ai volontari, ma (come dicevamo sopra) che non li lascino catalogare neppure ai bibliotecari. Quali che siano le opinioni su qualche singolo punto, con differenze che possono anche essere sfumature più che veri contrasti, credo si debba concordare con l’idea di fondo espressa dall’autrice: se ci sono volontari disponibili, può trattarsi di una valida risorsa, ma si deve sperare che non ci sia il rischio che diventino semplicemente un modo per (credere di) risparmiare sul personale. Come scrive Rasetti, “tagliare sulle risorse umane professionali significa più spesso impoverire un servizio […] invece che risparmiare” (p.57) (*).

rasetti-2(*) Al tema del volontariato in biblioteca l’autrice ha dedicato un altro libro, pubblicato nella stessa collana, La biblioteca è anche tua! : volontariato culturale e cittadinanza attiva, Milano : Editrice Bibliografica, 2014.

A ciò aggiungo una considerazione che credo sarà condivisa dall’autrice. Sta anche a noi bibliotecari dimostrare che la nostra professionalità, con le sue caratteristiche specifiche, può dare un valore aggiunto e che vale la pena di investire in tale direzione.

“Oggi è ormai assodato tra i bibliotecari” scrive l’autrice “che non esiste differenza di valore tra un manuale su come interpretare i sogni per giocare i numeri al lotto e un libro sulle più recenti scoperte in materia di genoma umano: perché sono le singole persone a stabilire volta per volta le priorità del momento c’è per loro tentare la fortuna con una giocata al botteghino o ampliare gli orizzonti della scienza” (p.20). L’idea alla base di tale affermazione è del tutto corretta e se ad accompagnare il testo di genetica fossero stati il fumetto di Topolino per il bambino o il romanzo di Liala per l’anziana lettrice, citati alla pagina precedente, si potrebbe sottoscriverla al volo. Come dice la seconda “legge” di Ranganathan per le biblioteche, “a ogni lettore il suo libro”.

Sul libro per collegare i sogni ai numeri del lotto si potrebbe però aprire un interessante discussione: se Rasetti ha ragione (e l’ha certamente) nel dire (p.100) che si dovrebbe scartare un manuale per concorsi che contiene riferimenti normativi non aggiornati e che quindi darebbe informazioni erronee al lettore, non si potrebbe trarre una conclusione analoga per il libro sui sogni e il lotto? Che un sogno possa rivelare quale numero uscirà da un’estrazione del lotto è evidentemente un’informazione erronea. In fondo, non troveremmo scorretto, e quindi non adatto alle richieste informative dei lettori, un libro sul genoma umano (per riprendere l’esempio dell’autrice) che attribuisse alla nostra specie un numero di coppie di cromosomi diverso dal corretto 23? I due casi non sono, in realtà, del tutto sovrapponibili: nel caso del manuale per concorsi o in quello ipotetico (e, fortunatamente, molto improbabile) del libro sul genoma umano in cui si sbaglia il numero dei cromosomi, l’utente si aspetta che la normativa citata sia aggiornata e che i dati sui cromosomi siano corretti, mentre nel caso del libro sul legame tra sogni e numeri del lotto si suppone sia l’utente stesso a volere l’informazione scorretta (in fin dei conti chiedere “mi dai un libro che colleghi i sogni ai numeri del lotto” è come chiedere “hai un manuale per concorsi non aggiornato?” o “c’è un libro sul genoma umano pieno di errori?”). D’altra parte, il fatto che sia l’utente stesso a chiederlo, non risolve la questione: l’utente va informato che il libro è comunque inutile perché è solo questione di fortuna e non esistono metodi basati sui sogni, sulla matematica o su qualunque altra cosa per prevedere quali numeri potrebbero uscire? E’ un discorso complesso che sarebbe interessante approfondire, anche e soprattutto in relazione ai libri che parlano di pratiche mediche che non hanno prove di efficacia a loro favore.

Nella seconda metà del libro, l’autrice riporta le esperienze di quattro bibliotecari, legate ciascuna a un aspetto diverso. Ci sono la storia di Francesca, che porta la biblioteca fuori dalla biblioteca per raccogliere nuovi utenti (pp.69-83), quella di Sebastiano, che coinvolge gli utenti per proporre corsi e cineforum (pp.84-96), quella di Carlo, che cura la gestione delle raccolte (pp.97-110), e quella di Mariella, che lancia la biblioteca sui social network (pp.111-121). Tutte queste esperienze offrono spunti interessanti. Mi soffermerò, in conclusione di questa recensione, sulla penultima.

Viene affrontato subito il discorso dello scarto, con l’eliminazione di “ciò che potrebbe fare male all’utente” (p.100), come nel caso del manuale per concorsi con riferimenti legislativi non aggiornati ricordato sopra, ma anche, semplicemente, di ciò che non è richiesto dato che, osserva giustamente l’autrice, “lo spazio sugli scaffali è un bene prezioso” (p.101). Come prevedere, però, se un libro verrà richiesto o meno in futuro? Il bibliotecario la cui esperienza è raccontata nel libro fa riferimento alla data dell’ultimo prestito effettuato: “via tutto quello che non va in prestito da almeno cinque anni, da trasferire nel purgatorio del magazzino di rete […] in attesa di miracolosi rientri nel circuito del prestito, prima di essere sottoposti alla selezione per lo scarto definitivo” (p.101) (*).

(*) Il criterio del tempo trascorso dall’ultimo prestito è indubbiamente valido, anche se i “rientri nel circuito dei prestiti” dopo cinque anni senza essere stati richiesti non sembrano però essere eventi così “miracolosi”, almeno stando ai dati che ho raccolto nelle biblioteche dove lavoro.
Da un lavoro di raccolta dei dati di circolazione fino al 2012 che ho fatto nella biblioteca di Parè si ricava che, dei libri della sezione adulti (eccettuato la scaffale dei libri in lingua straniera) della biblioteca di Parè che risultavano essere stati sugli scaffali dal 2005 al 2009 senza essere mai prestati, il 13,5% è uscito in prestito almeno una volta nei tre anni successivi (2010-2012). Dunque più di uno su dieci è andato in prestito in un giro di tempo relativamente breve.
I dati confermano anche, comunque, una maggiore percentuale per i libri che, invece, nel quinquennio erano stati prestati. Per i libri che erano stati in dotazione alla biblioteca in quello stesso periodo (qui, come nel caso precedente, si intende l’intero periodo: quindi libri che erano già presenti dall’inizio del 2005) e che durante quel tempo erano usciti in prestito almeno una volta nei tre anni seguenti, la percentuale è del 37,4%.
Il divario è ancora più ampio se si contano i libri che nel triennio 2010-2012 sono usciti in prestito più di una volta: le percentuali sono del 2,3% per i libri che non erano usciti in prestito nel citato quinquennio e del 15,4% per quelli che erano stati prestati almeno una volta in quei cinque anni.

Anche i libri donati alla biblioteca vanno sottoposti a un esame. Come giustamente si nota nel testo, per quanto il libro sia donato, il suo ingresso nelle raccolte della biblioteca ha un costo: “richiede […] una lavorazione che ha un costo vivo (quello del personale), ed occupa uno spazio fisico […]: perché lo spazio non è infinito, ed ogni libro collocato a scaffale sottrae spazio a qualche altro collega in attesa” (p.109). Bisogna dunque valutare se il libro merita, per la sua utilità per la biblioteca, il tempo e lo spazio che richiede.