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Recensione a BiblioTech di John Palfrey

Hanno ancora un ruolo le biblioteche “nell’era di Google e Amazon” nella quale “i nostri lettori possono ottenere all’istante quasi tutto quello che vogliono da Internet”? (p.14) A questa domanda, come si può intuire già dal sottotitolo (“perché le biblioteche sono importanti più che mai nell’era di Google”), John Palfrey nel suo libro BiblioTech (*) risponde affermativamente: biblioteche e bibliotecari per lui sono “assolutamente necessari” (p.24). Secondo l’autore, è importante che le biblioteche si muovano verso un’era “più digitale” (p.227), ma, nello stesso tempo, la biblioteca come edificio fisicamente presente sul territorio continua ad essere fondamentale: “abbiamo bisogno tanto di biblioteche fisiche quanto di biblioteche digitali” (p.18).

(*) John Palfrey, BiblioTech : perché le biblioteche sono importanti più che mai nell’era di Google, tr. di Elena Corradini, Milano : Editrice Bibliografica, 2016; ed. orig.: BiblioTech : why libraries matter more than ever in the age of Google, New York : Basic Books, 2015. Nel corso di questa recensione, i riferimenti al libro saranno dati indicando direttamente nel testo, tra parentesi, i numeri di pagina dell’edizione italiana.

“Per molti di noi,” scrive l’autore, “le biblioteche servono ad ottenere informazioni”. Oggi, però, osserva Palfrey in veste di avvocato del diavolo, è facile raggiungere le informazioni attraverso internet (pp.14-15; cfr pp.15-16). Che sia facile trovare una risposta alle domande non significa però che la risposta che facilmente si trova sia sempre attendibile. Ne è ben conscio l’autore che più volte nelle pagine del libro sostiene che uno dei compiti delle biblioteche e dei bibliotecari (e quindi uno dei motivi per cui, nell’era di Google, sono ancora importanti) dovrebbe essere quello di “aiutare gli utenti a distinguere le informazioni autorevoli da quelle poco credibili” (p.145; cfr pp.65, 85, 167) e dare un “supporto per evitare le trappole del mondo digitale”, come “condividere troppe informazione su sé stessi” e “invischiarsi in situazioni pericolose online” (p.65).

L’autore ricorda che molte biblioteche offrono servizi di reference online, segnalando comunque che “nella maggior parte delle biblioteche il numero delle persone che utilizza questa tipologia di servizi è estremamente basso rispetto a quello che si avvale dei reference in sede” e che “molte persone, compresi gli studenti, sembrano ancora prediligere […] chiedere aiuto a una persona in carne e ossa, piuttosto che aprire una finestra in chat” (p.79).

La biblioteca nella comunità

Palfrey invita le biblioteche ad “allinearsi alle esigenze della comunità” (p.228). Nel libro porta l’esempio di biblioteche del Midwest che “hanno creato eventi per insegnare alle persone come sviluppare nuove competenze, ad esempio come affettare la carne di salame”. L’autore scrive che “l’attrattiva di produrre in proprio la pancetta sta portando in biblioteca numeri significativi di persone”. Pur notando che “la cosa genera un po’ di confusione e non ha molta relazione con il prestito dei libri”, conclude che, “tuttavia, i bibliotecari oggi non contano più nulla se non si ingegnano per trovare nuovi modi per porsi al servizio delle loro comunità” (p.84). Se, da un lato, Palfrey ritiene che le biblioteche debbano aprirsi a questi “nuovi modi” anche se non hanno “molta relazione con il prestito dei libri”, dall’altro ritiene che debbano comunque mantenere la loro specificità di biblioteche e “resistere alla tentazione di trasformarsi in meri centri [d’aggregazione]” (p.89) (*).

(*) Nell’edizione italiana community centers è in questa frase tradotto come “centri culturali”, ma sembra migliore la traduzione presentata a p.16, “centri di aggregazione”.

Che, soprattutto nei paesi, la biblioteca sia anche un centro di aggregazione, appare normale e il fatto che ospiti anche attività che non hanno “molta relazione con il prestito dei libri” non sembra un problema, anche se appare un po’ esagerata l’enfasi con cui l’autore dice che i bibliotecari “non contano più nulla” se non si indirizzano verso nuove proposte: almeno per quel che vedo dalle mie parti, il prestito dei libri e le altre attività connesse a libri e altri documenti sono in buona salute e non appaiono certo attività marginali e poco richieste.
Come altri autori, Palfrey assegna alle biblioteche anche un ruolo riconducibile all’assistenza sociale. Le biblioteche devono ospitare i senzatetto (p.17) e offrire “servizi per i neo-immigrati e per chi cerca lavoro” (p.226). Per un verso, questo è scontato: le biblioteche sono aperte a tutti e i loro servizi sono rivolti a tutti. Per quanto riguarda, però, servizi specifici relativi ai senza fissa dimora, all’immigrazione e al lavoro, si può pensare che i servizi sociali abbiano maggiori competenze in materia rispetto alle biblioteche e quindi possano offrire una risposta migliore.

Palfrey parla di una “strategia di centrare la propria attenzione sulle persone piuttosto che sui materiali” (p.121). Che si debba porre “la propria attenzione sulle persone” è ovviamente corretto. Meno convincente è, a mio parere, che l'”attenzione sulle persone” sia contrapposta a quella “sui materiali”. L’attenzione per i materiali dovrebbe, anzi, essere parte integrante dell’attenzione per le persone: proprio perché si è attenti alle persone, si deve essere attenti ai materiali di cui possono fruire.

Digitalizzazione di documenti

Nel libro c’è una notevole attenzione per il tema della digitalizzazione dei documenti, come è logico aspettarsi dato che Palfrey è stato tra coloro che hanno dato vita alla Digital public library of America (DPLA) (pp.22-23). Le operazioni di digitalizzare documenti e metterli a disposizione gratuitamente in rete, sostiene l’autore, “hanno un valore altissimo”: i documenti possono essere consultati con facilità da chiunque abbia accesso alla rete senza doversi recare nel luogo dove il documento è conservato (p.122).

Questo vale certamente per documenti di grande rilievo come i diari di Isaac Newton citati come esempio da Palfrey (p.123), ma può valere anche per documenti più modesti. La vecchia scuola del paese, per esempio, probabilmente non finirà nei libri di storia dell’architettura, ma gli abitanti del luogo potrebbero vedere con piacere una foto dei tempi. D’altra parte, un documento che riguardi un certo argomento, pur riferendosi a una situazione locale, potrebbe essere interessante anche al di fuori del contesto locale per chi sta studiando tale argomento. L’invito di Palfrey e di altri sostenitori della digitalizzazione dei documenti potrebbe quindi essere accolto anche dalle biblioteche di piccoli comuni. Potrebbe essere un modo per mostrare, anche se solo attraverso una selezione, i documenti dell’archivio storico comunale (e magari anche di quello parrocchiale). Anche gli utenti della biblioteca potrebbero dare un contributo con vecchie foto del paese.

E’ certamente un buon suggerimento quello che dà l’autore invitando a fare rete nell’offerta di documenti digitalizzati (pp.122-123). Per un appassionato di storia locale in cerca di informazioni su un determinato argomento sarebbe certamente utile la possibilità che i documenti digitalizzati da più biblioteche della zona siano raggiungibili con una sola ricerca.
Palfrey richiama giustamente l’attenzione anche sui metadati. Scrive che “nuove forme di metadati devono essere sviluppate per aiutare a trovare le informazioni più rilevanti” (p.146). Comunque anche un buon uso dei metadati già disponibili (anche i semplici tag di un blog) può essere utile.

L’autore discute anche l’idea secondo la quale biblioteche, archivi e musei potrebbero trarre un vantaggio economico dalla riproduzione di documenti e dalla concessione dell’uso di immagini di reperti da loro conservati e metterli a disposizione gratis in rete ostacolerebbe questa opportunità. La possibilità di avere qualche entrata può apparire allettante per enti che di norma non hanno grandissimi stanziamenti a loro disposizione. Palfrey non condivide, però, questa idea e oppone ad essa argomentazioni convincenti. Fa notare, per cominciare, che “la maggior parte dei materiali non giungeranno mai a un livello di valore tale che valga la pena sfruttarli secondo il modello appena descritto”. Inoltre rendere liberamente e gratuitamente consultabili le immagini in rete non esclude che si possa comunque chiedere un pagamento a chi le volesse utilizzare per qualcosa che comporta un ritorno economico (p.126). “Cosa più importante,” aggiunge Palfrey, “le istituzioni del patrimonio culturale esistono in primo luogo con la finalità di rendere disponibili queste tipologie di opere, non di renderle difficili da trovare. La missione di queste istituzioni dovrebbe essere quella di trarre vantaggio da ciò che l’era digitale permette di fare, non di esitare a farlo allo scopo di riservarsi un ipotetico futuro introito” (pp.126-127).

Un problema dei documenti digitali è quello della loro conservazione. Come giustamente scrive Palfrey, un “paradosso è che l’informazione digitalizzata potrà essere più facilmente accessibile rispetto a prima, ma è molto più difficile da conservare” (p.116). C’è il problema dei supporti su cui sono registrate le informazioni, che possono deteriorarsi. C’è il problema dei formati nei quali sono registrate, che potrebbero non essere letti da futuri programmi: bisognerebbe quindi pensare a conservare vecchi programmi (e un ambiente informatico in cui funzionino) oppure a convertire in nuovi formati i documenti che sono in formati diventati obsoleti (cfr pp.40-41). Insomma, come riassume efficacemente Palfrey, “siamo molto più bravi a creare informazione digitale che a conservarla” (p.41). Non sorprende, dunque, che uno dei dieci punti che l’autore elenca alla fine del libro sia quello di investire di più nella conservazione del materiale digitale (p.229).

Bibliotecari hacker

Uno dei tratti più interessanti del libro di Palfrey è il riferimento all’etica hacker. Nelle linee di azione proposte alla fine del suo libro, l’autore include il suggerimento che “i bibliotecari dovrebbero partire dalla cultura hacker” (p.229). Ovviamente l’autore non si riferisce al senso negativo del termine, diventato comune, che si riferisce a persone che sfruttano le loro conoscenze informatiche per creare danni agli utilizzatori di computer, ma alla sua “accezione positiva” di “capacità di scomporre e ricostruire i sistemi informativi” (pp.118-119), come negli intenti dei pionieri della “rivoluzione informatica” di cui parla Steven Levy nel suo libro che si intitola proprio Hackers (*), testo a cui Palfrey fa riferimento (p.119, n.2).

(*) Steven Levy, Hackers : gli eroi della rivoluzione informatica, Milano : Shake edizioni Underground, 1996. Per l’etica hacker, si veda in particolare il capitolo 2 (pp.39-49).

L’idea di un collegamento tra l’etica hacker e il lavoro delle biblioteche è brillante. Proprio per questo è un peccato che nel libro di Palfrey sia realizzata solo parzialmente. Il capitolo di BiblioTech sulle “hacking libraries” richiama, in particolare per la digitalizzazione e la disponibilità online di documenti (v. sopra), un tema centrale nella cultura degli hackers, quello della libertà di accesso all’informazione (*). Viene invece trascurato un altro tratto fondamentale dell’etica hacker: la sua chiara vena partecipativa e anti-autoritaria, riassunta nel libro di Steven Levy nella formula “Dubitare dell’autorità. Favorire il decentramento” (**). Giustamente Palfrey ritiene positivo che le biblioteche, nella digitalizzazione dei documenti come in altre attività, lavorino “in una rete” (cfr p.e. pp.121 e 130), ma sarebbe opportuno che nel far ciò si avesse cura di evitare strutture verticali e centralizzate orientandosi, invece, verso modelli orizzontali e partecipativi.

(*) Uno dei punti in cui Levy riassume l’etica hacker dice che “tutta l’informazione deve essere libera”. Nel punto precedente si afferma che “l’accesso ai computer – e a tutto ciò che potrebbe insegnare qualcosa su come funziona il mondo – dev’essere assolutamente illimitato e completo” (Levy, Hackers, cit., p.40).
(**) Levy, Hackers, cit. p.41.

Sulla “creazione di record catalografici”, Palfrey fa solo un breve cenno ponendola tra le attività che “si condivideranno in modo molto più intenso” (p.121), senza però specificare le modalità di tale condivisione. Anche qui sono indubbiamente validi gli inviti di marca hacker a “dubitare dell’autorità” e “favorire il decentramento”, preferendo un modello di catalogazione partecipata a uno, ormai anacronistico, basato unicamente su centri di catalogazione. Per il bibliotecario che cataloga, è utilissimo l’accesso tramite gli opac (e i metaopac come il Mai e il Kvk) ai dati catalografici già prodotti da altri. Altrettanto utile è che il bibliotecario valuti i dati (“dubitare dell’autorità” è buona regola anche in senso catalografico) e che ci sia la possibilità di intervenire, in forme condivise, per apportare correzioni che risultino vantaggiose. Come suggerisce l’etica hacker: “dare sempre precedenza all’imperativo di metterci su le mani” (*).

(*) Levy, Hackers, cit., p.40.